Dettaglio legge regionale
Titolo | Misure per la riduzione dell’incidenza della plastica sull’ambiente e modifiche legislative. |
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Regione | Campania |
Estremi | Legge n. 26 del 04-12-2019 |
Bur | n. 73 del 05-12-2019 |
Settore | Politiche infrastrutturali |
Delibera C.d.M. | 29-01-2020 / Non impugnata |
La legge regionale, che detta misure per la riduzione dell’incidenza della plastica sull’ambiente e modifiche legislative, è censurabile relativamente alla disposizione contenuta nell’articolo 3, commi 5 e 6, che , per le motivazioni di seguito specificate, avendo l'effetto di legittimare ex post, mediante rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, interventi edilizi cui la stessa legge regionale non avrebbe potuto essere applicata, peraltro in zone sottoposte a vincoli, risultano violare norme di principio contenute nel Testo Unico dell’Edilizia, dPR n. 380/2001 e nel D.lgs. n. 1/2018, codice della protezione civile, e quindi l’articolo 117, terzo comma della Costituzione , con riguardo alla materia governo del territorio e protezione civile , oltre a porsi in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui agli articoli 3 e 97 della Costituzione . In particolare: l’articolo 3, comma 5 della legge regionale in esame, modifica l’articolo 2 della legge regionale 10 dicembre 2003, n. 21 (Norme urbanistiche per i comuni rientranti nelle zone a rischio vulcanico dell'area vesuviana), aggiungendo il seguente comma 2 bis : "2-bis. Il divieto previsto al comma 2 non si applica ai piani di recupero di cui all'articolo 29 della legge 47/1985, fatta salva la possibilità di rilascio di permesso di costruire in sanatoria sui singoli immobili anche residenziali ai sensi della legge 47/1985 e della legge 724/1994."; La medesima disposizione aggiunge dopo il comma 1 dell'articolo 5 il seguente comma : "1-bis. Il divieto previsto al comma 1 non si applica agli immobili anche residenziali in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore della presente legge risultino pendenti procedimenti per il rilascio di permesso di costruire in sanatoria ai sensi della legge 47/1985 e della legge 724/1994.". Sulla scorta di dette modifica, dunque, viene stabilito che il divieto previsto dall'articolo 2 comma 2 (ovvero quello di assumere da parte delle amministrazioni competenti provvedimenti di approvazione odi esecutività previsti da disposizioni di legge vigenti in materia, degli strumenti attuativi dei piani regolatori generali dei comuni ricompresi nella "zona rossa", comportanti nuove edificazione a scopo residenziale, ad eccezione degli edifici realizzati precedentemente all'entrata in vigore della legge) non si applica ai piani di recupero di cui all'art. 29 della legge 47/1985, fatta salva la possibilità di rilascio di permesso a costruire in sanatoria sui singoli immobili anche residenziali ai sensi della legge 47/1985 e della legge 724/1994; il divieto di rilascio di titoli edilizi abilitanti la realizzazione di interventi finalizzati a nuova edilizia residenziale di cui all'articolo 5 comma 1, non si applica agli immobili residenziali in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore della legge regionale in oggetto risultino pendenti procedimenti per il rilascio di permesso di costruire in sanatoria ai sensi della legge 47/1985 e della legge 724/1994; Lo stesso articolo 3, al comma 6, proroga per i comuni il termine di definizione delle domande di sanatoria al 31 dicembre 2020 e prevede che «Per gli abusi edilizi relativi ad immobili anche residenziali realizzati in uno dei Comuni di cui alla legge regionale 10 dicembre 2003, n. 21 (Norme urbanistiche per i comuni rientranti nelle zone a rischio vulcanico dell'area vesuviana) per i quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, risultano pendenti le domande di sanatoria, ai sensi della legge 47/1985 e della legge 724/1994, può essere rilasciato il permesso di costruire in sanatoria». Le modifiche introdotte dalla legge regionale in oggetto investono dunque la legge regionale 10 dicembre 2003, n. 21, con la quale si vietavano nuove edificazioni nella c.d. "zona rossa" (nella quale sono compresi i comuni rientranti nelle zone a rischio vulcanico dell'area vesuviana). Esse risultano violare, in primo luogo, principi fondamentali in materia di protezione civile e quindi l’articolo 117 , terzo comma della Costituzione, per contrasto con la normativa statale interposta di cui all’art. 18, co. 3, del D.lgs. 1/2018, secondo il quale “I piani e i programmi di gestione e tutela e risanamento del territorio e gli altri ambiti di pianificazione strategica territoriale devono essere coordinati con i piani di protezione civile al fine di assicurarne la coerenza con gli scenari di rischio e le strategie operative ivi contenuti”. In tal senso, la nuova norma regionale, consentendo la sanatoria di immobili abusivi a destinazione residenziale nella “zona rossa”, impedisce la riduzione del carico edilizio di un’area già densamente popolata, aggravando le procedure di eventuale evacuazione della popolazione. In altre parole, poiché la predetta pianificazione di emergenza nazionale per il rischio vulcanico del Vesuvio prevede l’evacuazione preventiva della c.d.“zona rossa” come unica misura di salvaguardia della popolazione e considerato che le operazioni di evacuazione cautelativa per la salvaguardia di vite umane risultano più agevoli e rapide in presenza di una minore densità abitativa, appare evidente il contrasto tra la richiamata pianificazione di emergenza nazionale e l’intento dell’articolato regionale in esame. Quest’ultimo, infatti, sanando abusivismi edilizi e permettendo nuove edificazioni, incentiva e legittima la densificazione urbana di aree a forte rischio vulcanico. Su tale aspetto, quindi, si rileva una violazione della previsione statale relativa al coordinamento tra la pianificazione territoriale e quella di protezione civile, determinando un aumento dell’esposizione della popolazione in caso di ripresa dell'attività eruttiva del Vesuvio. Inoltre, la norma dispone anche che “Il divieto previsto al comma 2 non si applica ai piani di recupero di cui all'articolo 29 della legge 47/1985 […]”, che detta i principi fondamentali a cui le regioni devono attenersi per disciplinare con proprie leggi la formazione, adozione e approvazione delle varianti agli strumenti urbanistici generali finalizzati al recupero urbanistico degli insediamenti abusivi. Al riguardo, si evidenzia che l’articolo della legge regionale in commento, consentendo modifiche e revisioni agli strumenti urbanistici nel caso in cui gli insediamenti abusivi siano oggetto dei piani di recupero di cui all'articolo 29 della legge n. 47/1985, apre la strada a possibili futuri interventi edilizi nei comuni rientranti nella zona rossa ad alto rischio vulcanico dell'area vesuviana. Orbene, dovendo la pianificazione regionale essere in linea con quella nazionale, che prevede principi volti non solo a preservare la popolazione, ma anche ad assistere la stessa in caso di verificazione dell’evento calamitoso, appare chiaro come la modifica normativa intervenuta preclude la possibilità di dare compiutamente seguito alle indicazioni nazionali per la pianificazione di emergenza. Si evidenzia ancora il contrasto con i principi fondamentali di cui all’art. 11, co. 1, del D.lgs. n. 1/2018, in base al quale le Regioni devono assicurare, nell’esercizio delle rispettive potestà legislative ed amministrative, lo svolgimento delle attività di protezione civile volte alla previsione, prevenzione e mitigazione dei rischi, alla gestione delle emergenze e al loro superamento. Le norme regionali confliggono con quanto prevede, più in generale, il Codice di protezione civile – che rappresenta la “legge cornice” nella materia de qua – nella parte in cui dispone che l’esercizio della funzione di protezione civile, anche e tanto più a livello territoriale, è preposta allo svolgimento di tutte le attività “volte a tutelare la vita, l'integrità fisica, i beni, gli insediamenti, gli animali e l'ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall'attività dell'uomo.” (art. 1, co. 1, D.lgs. n. 1/2018). Le norme regionali in esame introducono dunque di fatto una sanatoria, con il prevedere che "il divieto non si applica agli edifici residenziali per i quali risultino pendenti procedimenti per il rilascio di permesso di costruire in sanatoria ai sensi delle leggi del 1985 e del 1994". Sotto il profilo della violazione dei principi fondamentali in materi di governo del territorio e quindi il contrasto con l’articolo 117, terzo comma della Costituzione, si rappresenta che , in ordine alla normativa in esame, si è espresso recentemente il Consiglio di Stato, che, con sentenze n. 4465 del 23.07.2018 e n. 5381 del 30.07.2019, per due casi di ricorsi in materia di condono edilizio nel Comune di Ercolano, ha respinto gli appelli dei soggetti interessati all'ottenimento del condono edilizio a scopo residenziale per due motivi principali: a) in generale, per impedire la realizzazione di nuove abitazioni in "zona rossa", è necessario in primo luogo impedire che la pianificazione urbanistica le consenta (art. 2 LR n.21/03); occorre quindi obbligare i Comuni, titolari della potestà pianificatoria, ad adeguarsi (art. 3 LR n.21/03); fino all'adeguamento degli strumenti urbanistici è vietato il rilascio di titoli edilizi abilitanti la realizzazione di interventi finalizzati a nuova edilizia residenziale (art. 5 LR n.21/03); b) la legge regionale 18.11.2004 n. 10 e s.m.e i., a seguito dell'intervento della Corte Costituzionale con sentenza n. 49 del 10.02.2006, ha generalizzato il divieto di applicazione del condono edilizio per edifici a scopo residenziale rientranti nella cd "zona rossa", a tutte le richieste di cui alla legge n. 47/85, n. 724/94 e n. 326/2003. Pertanto, il Consiglio di Stato ha interpretato l'articolo 5 della Legge Regionale 21/2003 ritenendo che tutti gli immobili abusivi, ai sensi della stessa legge, non possano accedere alla sanatoria, quindi anche gli immobili preesistenti alla data di entrata in vigore della legge come nuova edilizia residenziale, tanto da imporre l'espresso divieto del rilascio del titolo abilitativo del condono edilizio, anche in presenza di istanze presentate nei tempi richiesti e, comunque, prima del 2003. Ciò al fine di tutelare il superiore interesse all'incolumità pubblica. Posto che il carattere «trasversale» della materia «tutela dell'ambiente» inevitabilmente comporta ambiti di sovrapposizione rispetto ad altri ambiti di competenza, la Corte Costituzionale, in più occasioni, ha affermato che «la disciplina unitaria e complessiva del bene ambiente inerisce a un interesse pubblico di valore costituzionale primario ed assoluto e deve garantire un elevato livello di tutela, come tale inderogabile da altre discipline di settore» e che, pertanto, la legislazione statale deve prevalere rispetto a quella dettata dalle regioni o dalle province autonome, salvo che queste ultime non intervengano in modo più rigoroso rispetto a quanto previsto dalla normativa statale (confronta sentenza n. 20/2012, n. 191/2011, n. 378/2007; n. 226/2003; n. 536/2002; n. 210/1987; n. 151/1986). In proposito, si rappresenta che l'art. 36 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, Testo Unico dell’edilizia, richiede, ai fini del rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, la doppia conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente intesa come conformità dell'intervento sia al momento della realizzazione sia al momento della presentazione della domanda. La normativa regionale in esame sembra invece introdurre una forma di condono, andando così ad invadere la competenza legislativa statale. Infatti, le modifiche introdotte renderebbero, di fatto, applicabile l'istituto dell'accertamento di conformità, previsto dall'art. 36 del TUE, anche ad interventi che eseguiti fino alla data di entrata in vigore della medesima legge regionale, avrebbero dovuto essere realizzati in conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia previgente; ciò con la possibilità, secondo la predetta disciplina regionale, di ottenere il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, nel presupposto che gli interventi risultano conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda, ovvero, nel caso di specie, attraverso una conformità alle nuove disposizioni della legge regionale in commento conseguita ex post. La rigorosa regola statale del rilascio del titolo in sanatoria di cui all' art. 36 del TUE è volta a sanare violazioni solo «formali». La «doppia conformità» è riconosciuta a livello giurisprudenziale come principio «finalizzato a garantire l'assoluto rispetto della «disciplina urbanistica ed edilizia» durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità» (confronta Corte Costituzionale n. 101/2013; Cons. Stato, IV, n. 32/2013, ove si precisa, tra l'altro che la disciplina urbanistica non ha effetto retroattivo; Cons. Stato, V, n. 3220/2013; Tribunale Amministrativo Regionale dell'Umbria n. 590/2014). In particolare, nella citata sentenza n. 101/2013, la Consulta ha precisato che «Il rigore insito nel principio in questione trova conferma anche nell'interpretazione della giurisprudenza amministrativa, la quale afferma che, ai fini della concedibilità del permesso di costruire in sanatoria, di cui all'art. 36 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, è necessario che le opere realizzate siano assentibili alla stregua non solo della disciplina urbanistica vigente al momento della domanda di sanatoria, ma anche di quella in vigore all'epoca di esecuzione degli abusi (pronunce del Consiglio di Stato, sezione IV, 21 dicembre 2012, n. 6657; sezione IV, 2 novembre 2009, n. 6784; sezione V, 29 maggio 2006, n. 3267; sezione IV, 26 aprile 2006, n. 2306). In tal senso, la stessa giurisprudenza afferma che la sanatoria in questione - in ciò distinguendosi da un vero e proprio condono - è stata deliberatamente circoscritta dal legislatore ai soli abusi «formali», ossia dovuti alla carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese la ratio ispiratrice della previsione della sanatoria in esame, «anche di natura preventiva e deterrente», finalizzata a frenare l'abusivismo edilizio, in modo da escludere letture «sostanzialiste» della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell'istanza per l'accertamento di conformità (citata pronuncia del Consiglio di Stato, sezione IV, 21 dicembre 2012, n. 6657)» (confronta anche Corte Costituzionale n. 140 del 5.6.2018, sempre con riferimento alla regione Campania). Anche alla stregua delle richiamate stringenti indicazioni giurisprudenziali, la disposizione regionale in commento risulta illegittimamente adottata, avendo l'effetto di legittimare ex post, mediante rilascio del titolo abilitativo in sanatoria interventi cui la stessa legge regionale non avrebbe potuto essere applicata. Tra l'altro, la portata della disposizione in commento è tale da consentire, in ipotesi, la legittimazione di possibili futuri interventi abusivi attraverso eventuali sopravvenute modifiche favorevoli della normativa urbanistica ed edilizia. Al riguardo, nella sentenza n. 1324/2014, Sez. V, il Consiglio di Stato ha avuto modo di precisare che «risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell'abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico. Tale ragionevolezza risulta da due fondamentali esigenze, prese in considerazione dalla legge: a) evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile); b) disporre una regola senz'altro dissuasiva dell'intenzione di commettere un abuso, perché in tal modo chi costruisce sine titolo sa che deve comunque disporre la demolizione dell'abuso, anche se dovesse sopraggiunge una modifica favorevole dello strumento urbanistico». Le norme in esame non possono ritenersi legittimate quali interventi di natura interpretativa, sulla base dei “dicta” della Corte Costituzionale, che, con la sentenza n. 73/2017ha ribadito che : “4.3.1.– … Al legislatore non è preclusa la possibilità di emanare norme retroattive sia innovative che di interpretazione autentica. La retroattività deve, tuttavia, trovare adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza attraverso un puntuale bilanciamento tra le ragioni che ne hanno motivato la previsione e i valori, costituzionalmente tutelati, al contempo potenzialmente lesi dall’efficacia a ritroso della norma adottata (sentenza n. 170 del 2013, che riassume sul tema le costanti indicazioni di principio espresse dalla Corte). Questa Corte ha, pertanto, individuato alcuni limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi, attinenti alla salvaguardia di principi costituzionali tra i quali sono ricompresi «il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario» (sentenza n. 170 del 2013, nonché sentenze n. 78 del 2012 e n. 209 del 2010). 4.3.2.– L’affermazione di principio in forza della quale la distinzione tra norme interpretative e disposizioni retroattive deve ritenersi priva di rilievo al fine che occupa merita, tuttavia, una ulteriore precisazione. In più occasioni, infatti, avuto riguardo alle norme che pretendono di avere natura meramente interpretativa, questa Corte ha ritenuto che la palese erroneità di tale auto-qualificazione può costituire un indice, sia pure non dirimente, della irragionevolezza della disposizione impugnata (in tal senso, sentenze n. 103 del 2013 e n. 41 del 2011). Per contro, l’individuazione della natura interpretativa della norma non può ritenersi in sé indifferente nel bilanciamento di valori sotteso al giudizio di costituzionalità che cade sulle norme retroattive. Se, ad esempio, i valori costituzionali in gioco sono quelli dell’affidamento dei consociati e della certezza dei rapporti giuridici, è di tutta evidenza che l’esegesi imposta dal legislatore, assegnando alle disposizioni interpretate un significato in esse già contenuto, riconoscibile come una delle loro possibili varianti di senso, influisce sul positivo apprezzamento sia della sua ragionevolezza « […] sia della non configurabilità di una lesione dell’affidamento dei destinatari» (sentenza n. 170 del 2008). 4.3.3.– …Sul punto va ribadito (ex plurimis, sentenza n. 314 del 2013) che «va riconosciuto carattere interpretativo alle norme che hanno il fine obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo». Il legislatore, del resto, può adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, così rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma anteriore (in termini, oltre al precedente già citato, anche le sentenze n. 271 del 2011, n. 209 del 2010 e n. 170 del 2008)” Sotto tale ulteriore aspetto le disposizioni della legge regionale che dettano prescrizioni del tutto innovative, non limitandosi ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, travalicano i limiti individuati dalla giurisprudenza costituzionale sopra richiamata, in violazione degli articoli 3 e 97 della Costituzione. Sulla scorta delle argomentazioni svolte , le norme regionali sopra indicate devono essere impugnate ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione. |