Dettaglio legge regionale
Titolo | Modifiche alla legge regionale n. 8 del 2019 (Proroga di termini). |
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Regione | Sardegna |
Estremi | Legge n. 22 del 20-12-2019 |
Bur | n. 56 del 27-12-2019 |
Settore | Politiche infrastrutturali |
Delibera C.d.M. | 21-02-2020 / Non impugnata |
Le disposizioni sopra richiamate si pongono in contrasto, in particolare, con il disposto di cui al D.M. 5 luglio 1975 "Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20 giugno 1896 relativamente all'altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali d'abitazione", il quale all'articolo 1 stabilisce che: -l'altezza minima interna utile dei locali adibiti ad abitazione è fissata in m. 2,70, riducibili a m. 2,40 per i corridoi, i disimpegni in genere, i bagni, i gabinetti ed i ripostigli (comma 1); - nei comuni montani al di sopra dei m. 1000 sul livello del mare può essere consentita, tenuto conto delle condizioni climatiche locali e della locale tipologia edilizia, una riduzione dell'altezza minima dei locali abitabili a m. 2,55 (comma 2); le altezze minime previste nel primo e secondo comma possono essere derogate entro i limiti già esistenti e documentati per i locali di abitazione di edifici situati in ambito di comunità montane sottoposti ad interventi di recupero edilizio e di miglioramento delle caratteristiche igienico-sanitarie quando l'edificio presenti caratteristiche tipologiche specifiche del luogo meritevoli di conservazione ed a condizione che la richiesta di deroga sia accompagnata da un progetto di ristrutturazione con soluzioni alternative atte a garantire, comunque, in relazione al numero degli occupanti, idonee condizioni igienico-sanitarie dell'alloggio, ottenibili prevedendo una maggiore superficie dell'alloggio e dei vani abitabili ovvero la possibilità di una adeguata ventilazione naturale favorita dalla dimensione e tipologia delle finestre, dai riscontri d'aria trasversali e dall'impiego di mezzi di ventilazione naturale ausiliaria (comma 3) Il Medesimo D.M. 5 luglio 1975 , all'articolo 5, prevede che: "5. Tutti i locali degli alloggi, eccettuati quelli destinati a servizi igienici, disimpegni, corridoi, vani-scala e ripostigli debbono fruire di illuminazione naturale diretta, adeguata alla destinazione d'uso. Per ciascun locale d'abitazione, l'ampiezza della finestra deve essere proporzionata in modo da assicurare un valore di fattore luce diurna medio non inferiore al 2%, e comunque la superficie finestrata apribile non dovrà essere inferiore a 1/8 della superficie dei pavimento. Per gli edifici compresi nell'edilizia pubblica residenziale occorre assicurare, sulla base di quanto sopra disposto e dei risultati e sperimentazioni razionali, l'adozione di dimensioni unificate di finestre e, quindi, dei relativi infissi. ". Le disposizioni regionali in questione non appaiono coerenti, inoltre, con la disciplina contenuta nel D.M. 26 giugno 2015 "Applicazione delle metodologie di calcolo delle prestazioni energetiche e definizione delle prescrizioni e dei requisiti minimi degli edifici", Allegato 1, punto 2.3 "Prescrizioni", n. 4, laddove si prevede che "..nei caso di installazione di impianti termici dotati di pannelli radianti a pavimento o a soffitto e nel caso di intervento di isolamento dall'interno, le altezze minime dei locali di abitazione previste al primo e al secondo comma, del decreto ministeriale 5 luglio 1975, possono essere derogate, fino a un massimo di 10 centimetri. Resta fermo che nei comuni montani al di sopra dei metri 1000 sul livello del mare può essere consentita, tenuto conto delle condizioni climatiche locali e della locale tipologia edilizia, una riduzione dell'altezza minima dei locali abitabili a metri 2,55... Al riguardo, si segnala che il Consiglio di Stato, Sez. IV, nella sentenza n. 1997 dei 2014, ha avuto modo di affermare che "...Come chiarito da Corte costituzionale n. 256/196, "la disciplina del condono non vale ad escludere ogni obbligo da parte dei Comune di accertamento delle condizioni di salubrità ai fini dell'abitabilità degli edifici.....". "Né rileva" prosegue la Corte "la circostanza che l'art. 35, ventesimo comma, preveda, a seguito della concessione in sanatoria, il rilascio del certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, purché non sussista contrasto con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni, poiché la deroga non riguarda, i requisiti richiesti da disposizioni legislative ". Ne deriva che "deve escludersi una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità pur nella più semplice forma disciplinata dai d.P. R. n. 425 del 1.994 a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni di cui al articolo 221 del testo unico delle leggi sanitarie (rectius, di cui all'articolo 4 del dP.R. n, 425 del 1994), ma, altresì, quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica, quali quelle a tutela delle acque dall'inquinamento, quelle sul consumo energetico, ecc.". Nel caso di specie, rileva il Consiglio di Stato, "ad essere violate sono le norme in tema di altezza minima ed aereoilluminazione che, seppur previste dal Decreto del Ministro della Sanità dei 5/7/1975 (è quindi da norme di carattere regolamentare) costituiscono diretta attuazione degli articoli 218, 344 e 345 del testo unico delle leggi sanitarie del 27 luglio 1934 n. 126. Il carattere secondario della fonte non toglie che esse attengano direttamente alla salubrità e vivibilità degli ambienti, ossia a condizioni tutelate direttamente da norme primarie e costituzionali. In questi casi, cioè, la norma secondaria concretizza il generico imperativo della norma primaria sostanziandone il contenuto minimo inderogabile in direzione di una tutela della salute e sicurezza degli ambienti. La verifica dell'abitabilità non può prescinderne. Del resto, una diversa interpretazione che giungesse a sostenere la derogabilità dei requisiti minimi di salubrità, per il sol fatto di essere fissati con norma regolamentare si porrebbe sicuramente in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione, oltre che con l'ari. 32 della stessa......” Alla luce della giurisprudenza sopra richiamata le disposizioni regionali in commento, che contengono una disciplina a regime per il recupero dei sottotetti a fini abitativi (tanto è vero che all'articolo 5, comma 3, si dispone che "Le volumetrie dei sottotetti recuperate ai sensi della presente legge non sono computabili ai fini dell'applicazione degli articoli 6 e 7 della legge regionale 4 aprile 2019, n 14) violano il principio di ragionevolezza di cui all'articolo 3 della Costituzione e l'articolo 32 della stessa per contrasto con i parametri interposti rappresentati dalle citate disposizioni del D.M. 5 luglio 1975. In via subordinata, viene in rilievo la violazione dell'articolo 117, terzo comma, della Costituzione con riferimento alle materie "governo del territorio" e "tutela della salute". 2) La norma di cui all'articolo 2, comma 2, impone, opportunamente, che il recupero dei sottotetti avvenga senza alcuna modificazione della sagoma dell'edificio esistente, delle altezze di colmo e di gronda, nonché delle linee di pendenza delle falde, fatta eccezione per l'ispessimento delle falde al fine di garantire i requisiti di rendimento energetico. Sono escluse, pertanto, le modificazioni più significative dell'aspetto esteriore degli edifici che potrebbero derivare dal recupero in questione e avere rilevanza paesaggistica. Va osservato che il recupero dei sottotetti può rendere necessaria l'apertura di finestre a raso e la creazione di abbaini o di altre tipologie di aperture, onde assicurare i requisiti illuminotecnici e di aerazione, ai fini dell'abitabilità dei locali sottotetto. Al riguardo, la medesima disposizione demanda al regolamento edilizio comunale la determinazione delle "tipologie di apertura nelle falde e ogni altra condizione alfine di rispettare gli aspetti paesistici, monumentali e ambientali dell'edificio sul quale si intende intervenire". Inoltre, al comma 3, con riguardo alla tutela monumentale di competenza statale, vengono fatte salve le diverse disposizioni della Parte II del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Per quanto concerne la tutela paesaggistica, vengono invece fatte salve "le diverse previsioni del piano regolatore comunale per gli edifici soggetti a tutela ai sensi degli articoli 13 e 17 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 - Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio", facendo esclusivo riferimento ai contenuti del piano regolatore comunale. Occorre evidenziare che anche l'introduzione di aperture nei tetti può rivestire una rilevanza paesaggistica, in particolare nell'ambito dei centri storici o dell'edilizia storica extraurbana, pertanto la determinazione delle "tipologie di apertura nelle falde e ogni altra condizione alfine di rispettare gli aspetti paesaggistici" non può essere demandata, per gli ambiti territoriali sottoposti a tutela paesaggistica, ai regolamenti edilizi o ai piani urbanistici comunali, ma deve essere regolata necessariamente dal Piano paesaggistico, ai sensi degli articoli 135 e 143 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, o dalla disciplina d'uso dei beni paesaggistici, di cui agli articoli 140, 141 e 141-bis del medesimo Codice. Le norme regionali quindi confliggono con la citata normativa statale, laddove si affida esclusivamente agli strumenti urbanistici la disciplina che regola, per i beni paesaggistici, le possibili trasformazioni delle coperture degli edifici, potenzialmente anche molto rilevanti. Basti pensare, in proposito, all'eventualità della diffusa introduzione di finestre a raso o abbaini sulle coperture dello unità edilizie che compongono il tessuto dei centri storici tutelati sotto il profilo paesaggistico. Questo profilo di illegittimità non viene meno per il fatto che la disciplina regionale non pregiudica - ovviamente - la necessità di munirsi, per gli interventi relativi a beni tutelati, anche dell'autorizzazione paesaggistica. Viene infatti comunque compromessa possibilità di una valutazione complessiva del contesto tutelato, quale dovrebbe avvenire nell'ambito del Piano paesaggistico adottato previa intesa con lo Stato e attualmente in itinere, rimettendo alla soprintendenza una valutazione caso per caso degli interventi. La norma peraltro, così come configurata, si presta anche a possibili equivoci da parte dell'utenza, essendo suscettibile di ingenerare l'erronea aspettativa di una valutazione favorevole anche in sede paesaggistica nel caso di interventi in linea con i regolamenti edilizi o i piani regolatori comunali, con l'ulteriore rischio di incrementare il contenzioso. Si rileva, altresì, la violazione del principio di leale collaborazione, atteso che da anni è in corso con la Regione Veneto il tavolo di copianificazione per l'elaborazione congiunta del Piano paesaggistico regionale, ai sensi degli articoli 135 e 143 del Codice, sede istituzionalmente deputata al confronto sulle questioni in esame. La disciplina regionale avrebbe dunque dovuto debba necessariamente subordinare la propria applicazione, con riferimento ai beni tutelati ai sensi della parte terza del Codice di settore, alla previa approvazione del Piano paesaggistico elaborato congiuntamente con lo Stato o alla previa introduzione di un'apposita disciplina d'uso dei beni paesaggistici. Le norme regionali risultano dunque in contrasto con l’articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, che riconosce allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di tutela del paesaggio, violando altresì l’articolo 9 della Costituzione. 3) L'art. 3 della legge regionale statuisce , ai commi 1 e 2 , che "1. Gli interventi diretti al recupero dei sottotetti sono classificati come ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera d) del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia". 2. Gli interventi previsti dal comma 1 sono soggetti a segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, e comportano la corresponsione di un contributo commisurato agli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria ed al costo di costruzione di cui all'articolo 16 del medesimo decreto, calcolati sulla volumetria, resa abitativa secondo le tariffe approvate e vigenti in ciascun comune per le opere di nuova costruzione” Dette previsioni nell’assoggettare gli interventi diretti al recupero dei sottotetti, correttamente qualificati quali ristrutturazioni edilizie ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera d) dei d.P.R. n. 380 del 2001, a SCIA segnalazione certificata di inizio attività, viola le norme interposte contenute negli articoli 10, comma 1, lettera c) , 23, comma 01, lett. a) e 22, comma 1, lett. e) del testo unico dell’edilizia d.P.R. n. 380 del 2001, le quali esigono, per tale tipologia di intervento, il permesso di costruire o la SCIA alternativa al permesso di costruire. Il mero riferimento operato dalla disposizione regionale in parola alla "segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA) ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica n 380 del 2001” stante la genericità del richiamo al TUE, non appare di per sé solo sufficiente ad indicare correttamente il titolo richiesto dalla normativa statale ai fini della realizzabilità dei predetti interventi. Infatti, come noto, le disposizioni del TUE riguardano anche la SCIA di cui all'articolo 22 del medesimo DPR. La norme regionale quindi, violando le disposizioni sopra richiamate del Testo Unico dell’edilizia , che costituiscono principi fondamentali in materia di governo del territorio, si pongono in contrasto con l’art. 117, terzo comma, della Costituzione. Per questi motivi la legge regionale, limitatamente alle disposizioni sopra evidenziate, deve essere impugnata ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione. |