Dettaglio legge regionale
Titolo | Riconoscimento di debiti fuori bilancio derivanti da acquisizione di beni e servizi in assenza del preventivo impegno di spesa, ai sensi dell’articolo 73, comma 1, lettera e) del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 per l’implementazione del Progetto “INNOTRANS – Enhancing Transport Innovation Capacities of Regions” finanziato con i fondi del Programma Interreg Europe 2014-2020, Priorità 1.1 e ulteriori disposizioni urgenti. |
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Regione | Abruzzo |
Estremi | Legge n. 29 del 03-11-2022 |
Bur | n. 155 del 04-11-2022 |
Settore | Politiche economiche e finanziarie |
Delibera C.d.M. | 28-12-2022 / Non impugnata |
La Legge Regione Abruzzo n. 29 pubblicata sul B.U.R n. 155 del 04/11/2022 recante: Riconoscimento di debiti fuori bilancio derivanti da acquisizione di beni e servizi in assenza del preventivo impegno di spesa, ai sensi dell'articolo 73, comma 1, lettera e) del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 per l'implementazione del Progetto "INNOTRANS Enhancing Transport lnnovation Capacities of Regions", finanziato con i fondi del Programma lnterreg Europe 2014-2020, Priorità 1.1 e ulteriori disposizioni urgenti presenta aspetti illegittimi per quanto di seguito evidenziato: Articolo 2, comma 7: la norma sostituisce il comma 2 dell'articolo 7 della legge regionale 10 agosto 2012, n. 41, recante la “Disciplina in materia funeraria e di polizia mortuaria”, prevedendo che i medici dipendenti delle strutture di Medicina Legale e del Servizio Igiene, Epidemiologia e Sanità Pubblica delle ASL svolgono la funzione di medico necroscopo. Al riguardo, si segnala che la modifica in esame, nel consentire lo svolgimento della predetta funzione ai medici dipendenti delle sole strutture di Medicina Legale e del Servizio Igiene, Epidemiologia e Sanità Pubblica delle ASL, invece che alle strutture di Medicina Legale, del Dipartimento di Prevenzione e dei Distretti Sanitari di Base delle ASL previste nella norma oggetto di sostituzione, è suscettibile, in assenza di una clausola di invarianza finanziaria, di determinare maggiori oneri di personale derivanti dall’assolvimento della citata funzione da parte del personale medico afferente agli unici citati servizi di Medicina Legale e del Servizio Igiene, Epidemiologia e Sanità Pubblica. A riguardo si rimarca che che gli enti del SSN soggiacciono - a livello regionale - ai limiti di spesa di personale di cui all’articolo 11, comma 1, del decreto-legge n. 35 del 2019 e , pertanto, la norma in esame si pone in contrasto con l’articolo 81 della Costituzione nonché con l’articolo 117, comma 3, in quanto il citato limite di spesa si configura quale principio di coordinamento della finanza pubblica, e, pertanto, sussistono i presupposti per l’impugnativa ex art. 127 della Costituzione. Articolo 2, comma 8: la norma stabilisce che “Al fine di tutelare il patrimonio regionale sito presso la sede del Consorzio per la Divulgazione e Sperimentazione delle Tecniche Irrigue CO.T.I.R. Srl in liquidazione nonché di definire la procedura liquidatoria di detto Consorzio e del Consorzio per la Ricerca Viticola ed Enologica in Abruzzo C.Ri.V.E.A. Srl in liquidazione, le maggiori entrate derivanti da partecipazioni della Regione Abruzzo a procedure concorsuali ed afferenti le competenze del Dipartimento Agricoltura sono prioritariamente destinate ai suddetti interventi”. La norma in argomento, disponendo che le maggiori entrate derivanti da partecipazioni della Regione Abruzzo a procedure concorsuali ed afferenti le competenze del Dipartimento Agricoltura siano prioritariamente destinate alle suddette procedure liquidatorie, appare critica sotto il profilo della legittimità costituzionale in quanto suscettibile di violare l’articolo 117, comma 3, della Costituzione nella materia di legislazione concorrente del coordinamento della finanza pubblica per il contrasto con l’interposta norma di cui all’articolo 14, comma 5, del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, recante “Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica” (T.U.S.P.), nonché lesiva del principio di buon andamento dell’amministrazione pubblica sancito dall’articolo 97 della Carta costituzionale. La richiamata disposizione del T.U.S.P. prevede, infatti, che “Le amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, non possono, salvo quanto previsto dagli articoli 2447 e 2482-ter del codice civile, sottoscrivere aumenti di capitale, effettuare trasferimenti straordinari, aperture di credito, né rilasciare garanzie a favore delle società partecipate, con esclusione delle società quotate e degli istituti di credito, che abbiano registrato, per tre esercizi consecutivi, perdite di esercizio ovvero che abbiano utilizzato riserve disponibili per il ripianamento di perdite anche infrannuali. Sono in ogni caso consentiti i trasferimenti straordinari alle società di cui al primo periodo, a fronte di convenzioni, contratti di servizio o di programma relativi allo svolgimento di servizi di pubblico interesse ovvero alla realizzazione di investimenti, purché le misure indicate siano contemplate in un piano di risanamento, approvato dall'Autorità di regolazione di settore ove esistente e comunicato alla Corte dei conti con le modalità di cui all'articolo 5, che contempli il raggiungimento dell'equilibrio finanziario entro tre anni […]”.Secondo costante giurisprudenza contabile (tra le altre Sezione regionale di controllo Toscana, deliberazione n. 84/2018, Lazio, deliberazione n. 1/2019/PAR; Puglia, deliberazione n. 47/2019/PAR; Lombardia, deliberazione n. 296/2019, Marche, deliberazione n. 123/2019/PAR), l’articolo 14, comma 5, del T.U.S.P. sancisce il cosiddetto “divieto del soccorso finanziario” da parte di un soggetto pubblico rispetto ai suoi organismi partecipati e impone l’abbandono della logica del “salvataggio a tutti i costi” di strutture e organismi partecipati che versano in situazione di dissesto. Sulla base di tale principio, sono stati dichiarati inammissibili “interventi tampone”, con dispendio di disponibilità finanziarie a fondo perduto, erogate senza un programma industriale o una prospettiva che realizzi l’economicità o l’efficienza della gestione nel medio e lungo periodo. La ratio di tale norma è stata individuata nell’esigenza di porre “un freno alla prassi, ormai consolidata, seguita dagli enti pubblici e in particolare dagli enti locali, di procedere a ricapitalizzazioni e ad altri trasferimenti straordinari per coprire le perdite strutturali (tali da minacciare la continuità aziendale); prassi che, come noto, da un lato finisce per impattare negativamente sui bilanci pubblici compromettendone la sana gestione finanziaria; dall’altro si contrappone alle disposizioni dei trattati (articolo 106 TFUE, già articolo 86 TCE), le quali vietano che soggetti che operano nel mercato comune possano beneficiare di diritti speciali o esclusivi, o comunque di privilegi in grado di alterare la concorrenza nel mercato, in un’ottica macroeconomica” (Sezione regionale di controllo Abruzzo, deliberazione n. 279/2015, e, nello stesso senso, la giurisprudenza sopra citata). In tale contesto, l’articolo 14, comma 5, del T.U.S.P. ha pertanto fissato “un generale divieto di disporre, a qualsiasi titolo, erogazioni finanziarie ‘a fondo perduto’ in favore di società in grave situazione deficitaria, relegando l’ammissibilità di trasferimenti straordinari ad ipotesi derogatoria e residuale, percorribile con finalità di risanamento aziendale e per il solo perseguimento di esigenze pubblicistiche di conclamato rilievo, in quanto sottendenti prestazioni di servizi di interesse generale ovvero la realizzazione di programmi di investimenti affidati e regolati convenzionalmente, secondo prospettive di continuità” (Sezione regionale di controllo Lazio, deliberazione n. 66/2018/PAR).Il c.d. divieto di soccorso finanziario, introdotto allo scopo di perseguire obiettivi di maggiore efficienza nella gestione delle società pubbliche, tenuto conto dei principi nazionali e comunitari in termini di economicità e di concorrenza, “appare espressivo di un vero e proprio principio di ordine pubblico economico, fondato su esigenze di economicità e razionalità nell’utilizzo delle risorse pubbliche e di tutela della concorrenza e del mercato. Tale principio s’impone alle amministrazioni pubbliche prescindendo, a tutela dell’effettività del precetto, dalle forme giuridiche prescelte per la partecipazione in organismi privati che finirebbero, altrimenti, col prestarsi a facile elusione del chiaro dettato normativo” (Sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 296/2019/PAR). L’intervento volto al sostegno di una società di cui si è dichiarata la messa in liquidazione appare, a fortiori, contrario agli enunciati princìpi.Per la magistratura contabile, infatti, vige un divieto assoluto di “soccorso finanziario” nei confronti di società (o consorzi), posti in stato di liquidazione, i quali restano in vita senza la possibilità di intraprendere nuove operazioni rientranti nell’oggetto sociale ma al solo fine di provvedere al soddisfacimento dei creditori sociali, previa realizzazione delle attività sociali ed alla distribuzione dell'eventuale residuo attivo tra i soci. Tenuto conto della particolare fase della vita sociale che la liquidazione rappresenta, infatti, l’apporto finanziario richiesto al socio è in re ipsa destituito delle finalità proprie di duraturo riequilibrio strutturale, venendo piuttosto a tradursi sul piano sostanziale in un accollo delle passività societarie, con rinuncia implicita al beneficio della ordinaria limitazione di responsabilità connessa alla separazione patrimoniale, al solo e circoscritto fine di consentire il fisiologico espletamento della fase di chiusura (Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Liguria, deliberazione n. 84/2018/PAR e n. 71/2015/PAR, nonché Cass. civ., Sez. I, sent. n. 3321 del 10 aprile 1996, e , da ultimo, Cass. civ., Sez. III, sent. n. 521 del 15 gennaio 2020). Anche se non realizzano il presupposto formale del divieto di soccorso finanziario, consistente nelle reiterate perdite di esercizio, infatti, le società in liquidazione ne realizzano il presupposto sostanziale, concernente la mancanza di una concreta prospettiva di risanamento,condizione indispensabile per la fruizione di risorse pubbliche, tanto più se straordinarie.Ove si decidesse di effettuare dei trasferimenti diretti a colmare l’incapienza del patrimonio societario rispetto al complesso delle pretese creditorie, in sostanza si porrebbe in essere un’operazione economica equivalente ad un accollo dei debiti della società, in relazione alla quale non sussiste alcun obbligo a suo carico e, anzi, si giungerebbe al paradosso di sconfessare la scelta originaria di operare per mezzo di una società di capitali piuttosto che in forma diretta.Secondo le norme di diritto comune, infatti, nelle società di capitali, per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio (articoli 2325, comma 1 e 2462, comma 1, Codice civile), sicché, in assenza di alcuna deroga sul punto, anche il socio pubblico, al pari di ogni altro socio, resta esposto responsabilmente nei limiti della quota capitale detenuta. Il rigore della norma di tutela della finanza pubblica in argomento è comprovato dall’eccezionalità dei casi in cui la stessa ammette l’ausilio finanziario da parte dell’ente partecipante, subordinato ad uno specifico iter procedurale e ad una concreta possibilità di recupero dell’economicità e dell’efficienza della gestione dell’organismo partecipato. In questa prospettiva lo stesso articolo 14, comma 5, T.U.S.P., consente, infatti, trasferimenti straordinari alle società in perdita “a fronte di convenzioni, contratti di servizio o di programma relativi allo svolgimento di servizi di pubblico interesse ovvero alla realizzazione di investimenti”, purché “le misure indicate siano contemplate in un piano di risanamento, approvato dall’Autorità di regolazione di settore ove esistente e comunicato alla Corte dei conti con le modalità di cui all'articolo 5, che contempli il raggiungimento dell'equilibrio finanziario entro tre anni”. Posto che le suddette circostanze, la cui ricorrenza legittimerebbe l’intervento finanziario pubblico, appaiono di norma estranee alla procedura di liquidazione, non si ignora il fatto che una disposizione di legge regionale cd. di “soccorso finanziario” potrebbe risultare in astratto compatibile con i precetti dettati dall’articolo 14, comma 5, del T.U.S.P., laddove la fase attuativa della medesima fosse rispettosa dei canoni di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa, così come enucleati dalla magistratura contabile. Nel caso in esame, invece, si è dell’avviso che – in assenza della dimostrazione da parte della Regione dei motivi specifici di interesse pubblico che giustificherebbero l’intervento, anche attraverso il chiarimento delle finalità di tutela del patrimonio regionale indicate nella norma – la disposizione recata dall’articolo 2, comma 8, della legge regionale in esame risulta censurabile sotto il profilo della legittimità costituzionale per contrasto con il comma 5 dell’articolo 14 – che contiene disposizioni di principio ai fini del coordinamento della finanza pubblica – del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, ed è, pertanto, suscettibile di violare l’articolo 117, comma 3, della Costituzione nella materia del coordinamento della finanza pubblica, nonché lesiva del principio di buon andamento dell’amministrazione pubblica sancito dall’articolo 97 della stessa Carta costituzionale e pertanto deve essere impugnata ex art. 127 della Costutuzione. Ad ogni buon conto, e fermo restando quanto sopra rilevato, si segnala che, con riferimento al comma 9, recante la copertura finanziaria degli oneri relativi agli interventi di cui al comma 8, l’utilizzo delle risorse stanziate nello stato di previsione delle spese di bilancio è consentito soltanto previo accertamento delle maggiori entrate accertate sul capitolo di entrata di nuova istituzione e derivanti da partecipazioni della Regione Abruzzo a procedure concorsuali, al fine di assicurare il necessario equilibrio finanziario. Inoltre La legge regionale in oggetto contempla talune disposizioni che, nella loro espressa formulazione, paiono sostanziare profili di contrasto con la potestà legislativa concorrente «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» i cui princìpi fondamentali, per costante giurisprudenza della Corte Costituzionale, non tollerano eccezioni sull’intero territorio nazionale (Cfr. Corte Costituzionale, Sentenza n. 69/2018 e, da ultimo, Corte Costituzionale, Sent. n. 126/2020), e nel cui ambito i principi fondamentali sono dettati dal decreto legislativo 28 dicembre 2003, n. 387 (recante “Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità”), e, in specie, dall’art. 12 (ex multis, sentenze n. 14 del 2018 e n. 177 del 2018). In tale ambito previsionale - per costante giurisprudenza della Corte Costituzionale – le Regioni, e le Province autonome, sono, dunque, tenute a rispettare i principi fondamentali contemplati dal legislatore statale e in buona parte racchiusi nel più volte citato decreto legislativo n. 387 del 2003 (ex multis sentenze n. 11 del 2022, n. 177 del 2021 e n. 106 del 2020) nonché dal decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28. Principi, quest’ultimi, che si desumono, altresì, dalle «Linee guida» di cui al decreto ministeriale 10 settembre 2010, adottate in attuazione dell’anzidetto art. 12, comma 10, del decreto legislativo n. 387 del 2003 ed il cui rispetto si impone al legislatore regionale (Cfr. Corte Cost., Sent. n. 86/2019). Con riferimento alle predette linee guida, è stato peraltro ricordato che esse, «[…] approvate in sede di conferenza unificata, sono espressione della leale collaborazione tra Stato e Regioni e sono, pertanto, vincolanti, in quanto “costituiscono, in settori squisitamente tecnici, il completamento della normativa primaria” (sentenza n. 86 del 2019). Nell’indicare puntuali modalità attuative della legge statale, le linee guida hanno “natura inderogabile e devono essere applicate in modo uniforme in tutto il territorio nazionale (sentenze n. 286 e n. 86 del 2019, n. 69 del 2018)” (sentenza n. 106 del 2020)» (ancora, sentenza n. 177 del 2021). Anche le disposizioni contenute nelle linee guida, quindi, «sono annoverate – per giurisprudenza costante di questa Corte – tra i principi fondamentali della materia, vincolanti nei confronti delle Regioni» (sentenza n. 77 del 2022). […]”. Delineato, quindi, il contesto normativo e giurisprudenziale, in cui si colloca la legge regionale in esame, volta in maniera espressa a disciplinare lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili (con particolare riferimento alla loro localizzazione), nell’ottica del principio di leale collaborazione si evidenzia quanto segue, avuto particolare riguardo alle sottonotate disposizioni, oggetto di specifica disamina. In limine, rileva il disposto di cui all’art. 2, che, sotto la rubrica “Disposizioni per lo sviluppo delle fonti rinnovabili, in materia di agricoltura, di alienazioni di beni immobili e mobili e modifiche alle leggi regionali 10/2022, 41/2012, 2/2022, 5/2022, 23/2021, 9/2018, 45/2019, 26/2010 e 51/2010”, al comma 1 prevede (grassetto aggiunto) che “Al fine di agevolare lo sviluppo delle fonti rinnovabili quale strumento di contenimento dei costi energetici e di sostegno del settore produttivo, in attuazione della normativa statale vigente in materia di energia da fonti rinnovabili, L’Azienda regionale delle aree produttive (ARAP) ed il Consorzio per lo Sviluppo Industriale (CSI) dell’area Chieti – Pescara possono individuare le zone destinate a standard urbanistici ovvero individuate come aree di rispetto o zone filtro dai vigenti Piani Regolatori Territoriali (PRT), per consentire l’installazione di impianti da fonti rinnovabili da parte di soggetti pubblici o privati”. Al comma 2 è, invece, (grassetto aggiunto) previsto che “Per le finalità di cui al comma 1, l’ARAP ed il CSI dell’area Chieti – Pescara, ciascuno per l’ambito competenza, definiscono con atto proprio le modalità ed i criteri per l’assegnazione delle aree, favorendo, altresì, l’eventuale condivisione dell’energia prodotta nel rispetto del decreto legislativo 8 novembre 2021 numero 199 (Attuazione della direttiva (UE) 2018/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2018, sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili), del decreto legge 1° marzo 2022, n. 17 (Misure urgenti per il contenimento dei costi dell’energia elettrica e del gas naturale, per lo sviluppo delle energie rinnovabili e per il rilancio delle politiche industriali) e della legge regionale 17 maggio 2022, n. 8 (Interventi regionali di promozione dei gruppi di auto consumatori di energia rinnovabile e delle comunità energetiche rinnovabili e modifiche alla l.r. 6/2022). Il comma 3 dispone (grassetto aggiunto), poi, che “L’assegnazione delle aree di cui al comma 2 avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficienza energetica”. Al comma 4 è, infine, previsto (grassetto aggiunto) che “Le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 non comportano variante ai vigenti PRT, sono immediatamente esecutive e non richiedono procedure di aggiornamento degli strumenti di pianificazione, trattandosi di interventi che non mutano la destinazione d’uso delle aree di cui al comma 1 e risultano compatibili e complementari a detta destinazione.”. Dalla lettera delle previsioni normative regionali dianzi rassegnate rileva come, il legislatore regionale, attraverso di esse, abbia inteso, dunque, affidare a due enti regionali (precisamente l’ARAP ed il CSI), l’individuazione di specifiche aree (le zone destinate a standard urbanistici, ovvero individuate come aree di rispetto o zone filtro dai vigenti Piani Regolatori Territoriali) al fine di consentire l’installazione di impianti alimentati a fonte rinnovabile da parte di soggetti pubblici o privati, altresì prevedendo una non ben specificata “assegnazione” di tali aree che dovrebbe avvenire sulla base di specifici atti dell’ARAP e del CSI, disciplinanti le relative modalità e i relativi criteri, nel rispetto di taluni principi (economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficienza energetica). Ciò posto, dalla disamina di dettaglio delle disposizioni regionali dianzi riportate, specifico motivo di illegittimità costituzionale, si rinviene dal confronto della medesima con il parametro interposto statale recato dalle linee guida di cui al decreto ministeriale 10 settembre 2010 laddove è, appunto, previsto che, nell’ambito della pianificazione territoriale ai fini dell’ubicazione degli impianti a fonte rinnovabile, al legislatore regionale è attualmente consentito, ed entro determinati limiti, procedere alla classificazione solamente di aree “non idonee”. Dalla lettura del paragrafo 17 delle summenzionate linee guida (grassetto aggiunto), si evince, difatti, che «[…] le Regioni e le Province autonome possono procedere alla indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti secondo le modalità di cui al presente punto e sulla base dei criteri di cui all’allegato 3». E tale individuazione deve avvenire «[…] attraverso un’apposita istruttoria avente ad oggetto la ricognizione delle disposizioni volte alla tutela dell’ambiente, del paesaggio, del patrimonio storico e artistico, delle tradizioni agroalimentari locali, della biodiversità e del paesaggio rurale che identificano obiettivi di protezione non compatibili con l’insediamento, in determinate aree, di specifiche tipologie e/o dimensioni di impianti, i quali determinerebbero, pertanto, una elevata probabilità di esito negativo delle valutazioni, in sede di autorizzazione». Le aree non idonee sono, quindi, individuate dalle regioni «[…] nell’ambito dell’atto di programmazione con cui sono definite le misure e gli interventi necessari al raggiungimento degli obiettivi di burden sharing […]», nel quale devono essere richiamati gli esiti dell’istruttoria svolta, contenenti «[…] in relazione a ciascuna area individuata come non idonea in relazione a specifiche tipologie e/o dimensioni di impianti, la descrizione delle incompatibilità riscontrate con gli obiettivi di protezione individuati nelle disposizioni esaminate». Sulla base di tale disciplina, la Corte costituzionale (Cfr. Sentenza n. 177 del 2021) ha affermato, peraltro, che «[…] la dichiarazione di inidoneità deve […] risultare quale provvedimento finale di un’istruttoria adeguata volta a prendere in considerazione tutta una serie di interessi coinvolti», e che «[i]n ogni caso l’individuazione delle aree non idonee deve avvenire a opera delle Regioni attraverso atti di programmazione» (Sentenza n. 86 del 2019); cosicché «[…] una normativa regionale, che non rispetti la riserva di procedimento amministrativo e, dunque, non consenta di operare un bilanciamento in concreto degli interessi, strettamente aderente alla specificità dei luoghi, impedisce la migliore valorizzazione di tutti gli interessi pubblici implicati e, di riflesso, viola il principio, conforme alla normativa dell’Unione europea, della massima diffusione degli impianti da fonti di energia rinnovabili (sentenza n. 286 del 2019, in senso analogo, ex multis, sentenze n. 106 del 2020, n. 69 del 2018, n. 13 del 2014 e n. 44 del 2011)» […]”. Le stesse citate norme regionali parrebbero, inoltre, porsi in contrasto con le previsioni di cui al parametro interposto statale costituito dal decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199, e, in special modo, con il relativo articolo 20, laddove è previsto (grassetto aggiunto), al comma 1, che “Con uno o più decreti del Ministro della transizione ecologica di concerto con il Ministro della cultura e il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono stabiliti principi e criteri omogenei per l’individuazione delle superfici e delle aree idonee e non idonee all’installazione di impianti a fonti rinnovabili aventi una potenza complessiva almeno pari a quella individuata come necessaria dal PNIEC per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo delle fonti rinnovabili”. Al comma 4 del medesimo articolo è previsto, inoltre, che “Conformemente ai principi e criteri stabiliti dai decreti di cui al comma 1, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore dei medesimi decreti, le Regioni individuano con legge le aree idonee, anche con il supporto della piattaforma di cui all’articolo 21. Il Dipartimento per gli affari regionali e le autonomie della Presidenza del Consiglio dei ministri esercita funzioni di impulso anche ai fini dell'esercizio del potere di cui al terzo periodo. Nel caso di mancata adozione della legge di cui al primo periodo, ovvero di mancata ottemperanza ai principi, ai criteri e agli obiettivi stabiliti dai decreti di cui al comma 1, si applica l’articolo 41 della legge 24 dicembre 2012, n. 234”. La possibilità, pertanto, di stabilire aree “idonee” per l’installazione di impianti a fonti rinnovabili ad opera del legislatore regionale è subordinata all’adozione di specifici decreti ministeriali, circostanza attualmente ancora non avvenuta. Ad amplius, rilevano, altresì, i seguenti profili di illegittimità desumibili dalla disamina testuale del provvedimento normativo di cui trattasi. In primis, dalla lettura del combinato disposto dei commi 1, 2, 3 e 4 dell’articolo 2, non si evince alcuna evidenza della natura “pubblica” o “privata” delle zone destinate all’assegnazione ove consentire l’installazione degli impianti alimentati a fonti rinnovabili. In buona sostanza, non appare chiaro se le zone che l’ARAP ed il CSI sono chiamate a individuare ai fini dell’istallazione di impianti da fonti rinnovabili senza modificare i PRT siano esclusivamente quelle di loro proprietà (o nell’ambito della loro gestione), oppure di proprietà regionale o – addirittura - anche aree di terzi. Inoltre, come già anticipato, l’assegnazione di tali aree, secondo quando previsto dal comma 3, dell’articolo 2, avverrebbe nel rispetto dei principi di economicità, efficienza, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficienza energetica; sul punto, si evidenzia, che il legislatore regionale ben avrebbe potuto, in relazione al tipo di procedura individuato, operare un richiamo anche ai prìncipi generalizzati in materia di affidamento recati dall’articolo 30, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50. Alla luce delle anzidette considerazioni, ben si evince come la norma, per come formulata, nel non specificare, semmai, la natura esclusivamente pubblica delle aree soggette a tale assegnazione (ma ricomprendendovi, per come scritta, anche quelle di natura privata), violerebbe l’articolo 42, comma 3, della Costituzione in base a cui “La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale”. Ulteriore motivo di illegittimità costituzionale della norma risiederebbe, altresì, nel fatto che, atteso il tenore letterale della norma, tale assegnazione delle aree sembrerebbe legittimare il soggetto assegnatario alla costruzione e all’esercizio di impianti alimentati a fonti rinnovabili, il tutto in evidente spregio ai principi, implicanti l’assoggettamento a specifici regimi autorizzativi quanto alla realizzazione e all’ esercizio degli impianti. Di qui il contrasto con la normativa statale interposta di cui al combinato disposto del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, e del decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28 che disciplina, in base alla specifica tipologia di impianto, l’apposito procedimento autorizzativo e le relative competenze amministrative (ripartite tra Ministeri, Regioni, Province e Comuni), costituendo al contempo principio fondamentale nella materia di legislazione concorrente della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» (Cfr. Corte costituzionale, Sentenze n. 11 del 2022, n. 177 del 2021 e n. 106 del 2020). Alla luce di tali considerazioni, l’impianto normativo oggetto di odierno scrutinio, per come formulato, si espone nel suo complesso ai dinanzi evidenziati dubbi di legittimità costituzionale, in quanto si discosta dal quadro normativo nazionale di riferimento, ispirato, tra l’altro, al principio della massima diffusione degli impianti da fonti di energia rinnovabile, vieppiù in assenza di un rinvio generalizzato alle disposizioni statali per i profili non espressamente disciplinati. Quanto sopra tenuto, altresì, conto del fatto che il testo è, sotto molti profili, vago e di difficile interpretazione, all’uopo evidenziandosi al riguardo come la giurisprudenza della Corte costituzionale sia concorde nel ritenere illegittima una disposizione in cui l’ambiguità semantica riguardi una disposizione regionale foriera di sostanziali dubbi interpretativi che rendono concreto il rischio di un’elusione del principio fondamentale stabilito dalla norma statale risultando, in questo caso, l’esigenza unitaria sottesa al principio fondamentale pregiudicata dal significato precettivo non irragionevolmente desumibile dalla disposizione regionale. Ciò, in quanto «l’eventuale distonia interpretativa, contraddittoria rispetto alla norma statale, costituisce (per l’appunto) conseguenza diretta della modalità di formulazione della disposizione». (Cfr. Sentenza n. 107/2017). Per i motivi esposti, per le norme esaminate deve essere proposta l’impugnativa in parte qua della legge regionale di cui trattasi dinanzi alla Corte Costituzionale, per violazione degli articoli 117, comma terzo, e 42, comma terzo, della Costituzione, in relazione ai parametri statali interposti dianzi citati. |