Dettaglio legge regionale
Titolo | Disposizioni collegate alla legge di stabilità regionale 2022. Disposizioni varie. |
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Regione | Lazio |
Estremi | Legge n. 19 del 23-11-2022 |
Bur | n. 97 del 24-11-2022 |
Settore | Politiche economiche e finanziarie |
Delibera C.d.M. | 19-01-2023 / Non impugnata |
La legge regione Lazio 23 novembre 2022, n. 19, recante "Disposizioni collegate alla legge di stabilità regionale 2022. Disposizioni varie" deve essere impugnata ex art. 127 Cost. per le motivazioni che seguono: §§§ L'art. 9, commi 28 e 29, in materia di indennità a favore dei farmacisti rurali, prevede un incremento dell'indennità per i farmacisti rurali fino a un importo massimo di 1.500 euro. A tali oneri si provvede con un incremento dei fondi della missione 13 “Tutela della salute” (300mila euro stanziati su ciascun anno 2022, 2023 e 2024) e una corrispondente diminuzione delle risorse di cui al programma 03 "Altri Fondi" della missione 20 "Fondi e accantonamenti". Le segnalate disposizione non risultano in linea con la normativa statale di riferimento tenuto conto che, fino a quando non verrà stipulato l'accordo collettivo nazionale (ACN) di cui all'art. 8, comma 2, del D.lgs. n. 502/1992, l'indennità di residenza in favore dei titolari delle farmacie rurali continua ad essere determinata sulla base delle norme vigenti, ai sensi dell'art. 4 del D.lgs. n. 153/2009 che, al comma 1, prevede quanto segue: "L'accordo collettivo nazionale di cui all'articolo 8, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni, stabilisce i criteri da utilizzare da parte delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano per la determinazione dell'indennità di residenza prevista dall'articolo 115 del testo unico delle leggi sanitarie approvate con regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, in favore dei titolari delle farmacie rurali. I predetti criteri tengono conto della popolazione della località o agglomerato rurale in cui è ubicata la farmacia, nonché di altri parametri indicatori di disagio, in relazione alla localizzazione delle farmacie, nonché all'ampiezza del territorio servito"; e al successivo al comma 2 precisa: "Fino a quando non viene stipulato l'accordo collettivo nazionale di cui al primo comma, l'indennità di residenza in favore dei titolari delle farmacie rurali continua ad essere determinata stilla base delle norme preesistenti". Premesso che la Regione Lazio è impegnata nel Piano di rientro dal disavanzo sanitario, qualsiasi intervento messo in campo dalla Regione deve essere valutato in coerenza con il quadro economico programmatico complessivo per il triennio 2022-2024, poiché la vincolatività del Programma operativo di consolidamento e sviluppo è espressione del principio fondamentale diretto al contenimento della spesa pubblica sanitaria e del correlato principio di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell'art. 2, comma 80, della legge n. 191/2009. Visto che per la copertura finanziaria di tale tipologia di spesa si fa fronte con le risorse a disposizione sulla Missione 13 “Tutela della Salute”, ne consegue che la previsione normativa in esame, in una condizione di risorse contingentate, pone il problema della congruità della copertura della spesa "necessaria" (art. 81, terzo comma, Cost.), posto che un impiego di risorse per prestazioni "non essenziali" riduce in maniera corrispondente le risorse per quelle essenziali. Pertanto la norma deve essere impugnata ex art. 127 Cost. per violazione dell’art. 81, terzo comma Cost. Inoltre si rileva che trattasi di prestazioni extraLEA che la Regione Lazio, impegnata nel piano di rientro dal disavanzo sanitario, non può erogare. Si richiamano in proposito le sentenze della Corte costituzionale nn. 104/2013 e 190/2022 e pertanto si ritiene che la norma debba essere impugnata dinanzi alla Corte Costituzionale, per contrasto altresì con l'articolo 117, terzo comma, Cost. in materia di tutela della salute e di coordinamento della finanza pubblica. Pertanto la norma deve essere impugnata ex art. 127 Cost. §§§ L'articolo 9, comma 70 della legge regionale n. 19 del 2022 ha sostituito l'articolo 6, comma 2 della legge regionale n. 7 del 2017, prevedendo, in primo luogo, che nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia o di demo-ricostruzione con incremento fino a un massimo del 20 per cento della volumetria o della superficie lorda esistente (ad eccezione degli edifici produttivi per i quali l'incremento massimo consentito non può superare il 10 per cento della superficie coperta) sono consentiti i cambi di destinazione d'uso nel rispetto delle destinazioni d'uso previste dagli strumenti urbanistici generali vigenti, indipendentemente dalle percentuali previste dagli strumenti urbanistici comunali per ogni singola funzione nonché dalle modalità di attuazione, dirette o indirette, e da altre prescrizioni previste dagli stessi. A tale riguardo, giova osservare che, nel momento in cui si ammette che il cambio della destinazione d'uso dell'immobile sottoposto a intervento di ristrutturazione edilizia o di demo-ricostruzione possa avvenire anche "indipendentemente" dalle percentuali stabilite negli strumenti urbanistici comunali per ogni singola finzione, il legislatore regionale, interviene unilateralmente sui piani urbanistici comunali, modificandoli. Conseguentemente, la disposizione in esame parrebbe, a tacer d'altro, illegittima. Difatti, benché l'articolo 6 della legge regionale n.7 del 2017 contenga, al comma 6, una clausola di salvaguardia che esclude che le zone individuate come "insediamenti urbani storici" dal Piano Territoriale Paesistico Regionale (PTPR) partecipino agli interventi di rigenerazione urbana e recupero edilizio disciplinati al comma 1, l'intervento novellatore è volto a prevedere che - in occasione degli interventi di ristrutturazione edilizia o di demo-ricostruzione - siano ammessi cambi di destinazione d'uso che prescindano dalle percentuali individuate dal piano urbanistico comunale per ogni singola funzione, e ciò in assenza di qualsivoglia copertura normativa statale. Il medesimo articolo 9, comma 70, introduce all'articolo 6, comma 2 della legge n. 7 del 2017 un secondo periodo con cui si ammettono - incondizionatamente - i cambi di destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale di cui all'articolo 23-ter del d.p.r. 380 del 2001 (Testo unico in materia edilizia). L'articolo 23-ter del d.p.r. 380 del 2001 prevede che: "1. Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa, da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale. 2. La destinazione d'uso dell'immobile o dell'unità immobiliare è quella stabilita dalla documentazione di cui all'articolo 9-bis, comma 1-bis. 3. Le regioni adeguano la propria legislazione ai principi di cui al presente articolo entro novanta giorni dalla data della sua entrata in vigore. Decorso tale termine, trovano applicazione diretta le disposizioni del presente articolo. Salva di versa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito.". In buona sostanza, ai sensi dell'articolo 23-ter, comma 3 del Testo unico sull'edilizia, il mutamento della destinazione d'uso nell'ambito della stessa categoria di finzioni di cui al comma 1, ovvero: a) residenziale, a-bis) turistico-ricettiva, b) produttiva e direzionale, c) commerciale e rurale, è sempre consentito, nel rispetto di quanto previsto dalle leggi regionali e dagli strumenti urbanistici comunali. Al contrario, con la legge in esame il legislatore regionale ammette che, all'interno della stessa categoria funzionale, possano essere realizzati mutamenti incondizionati della destinazione d'uso, per tale via introducendo, ancora una volta, deroghe unilaterali e generalizzate agli strumenti di pianificazione urbanistica. Di conseguenza, anche il secondo periodo dell'articolò 6. comma 2, della legge regionale n. 7 del 2017, così come modificato dall'articolo 9, comma 70, lettera b) della legge regionale n. 19 del 2022 è illegittimo. Come noto, infatti, non è consentito alle Regioni introdurre deroghe generalizzate ex lege alla pianificazione urbanistica e agli standard urbanistici di cui al decreto ministeriale n. 1444 del 1968. Una tale opzione normativa viene, infatti, a compromettere la finzione propria della pianificazione urbanistica e degli standard fissati a livello statale, volti ad assicurare l'ordinato assetto del territorio. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 219 del 2021, ha sottolineato come il potere di pianificazione urbanistica "non è funzionale solo all'interesse all'ordinato sviluppo edilizio del territorio ma è rivolto anche alla realizzazione contemperata di una pluralità di differenti interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti". La stessa normativa sul piano casa escludeva la possibilità di derogare al d.m. n. 1444 del 1968. In particolare, "la prima norma legislativa statale sul "piano casa" (art. 11 del dl. n. 112 del 2008) non contemplava la possibilità che gli ampliamenti consentiti derogassero al dm. n. 1444 del 1968 e, coerentemente, tale possibilità non risultava neppure dall'Intesa del 1° aprile 2009. Nemmeno nella seconda disciplina statale sul "piano casa" (art. 5 del ti L n. 70 del 2011) si ritrova alcun cenno alla derogabilità del d. m. n. 1444 del 1968; anzi, il comma 11 dell'art. 5 tiene «fermo il rispetto degli standard urbanistici)), con chiaro riferimento al citato decreto. L'art. 5 del ti L n. 70 del 2011 è stato poi oggetto di interpretazione ad opera dell'art. 1, comma 271, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015))), secondo cui «[l]e previsioni e le agevolazioni previste dall'articolo 5, commi 9 e 14, del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106, si interpretano nel senso che le agevolazioni incentivanti previste in detta norma prevalgono sulle normative di piano regolatore generale, anche relative a piani particolareggiati o attuativi, fermi i limiti di cui all'articolo 5, comma 11, secondo periodo, del citato decreto-legge n. 70 del 2011». Da un lato, dunque, il legislatore statale ha avvertito la necessità di affermare espressamente la possibilità di derogare - nell'ambito del "piano casa" - agli strumenti urbanistici, dall'altro tale deroga è stata limitata ad essi, senza alcuna estensione alle norme statali (anzi, il limite di cui al citato art. 5, comma ii, è stato tenuto fermo)" (in questi termini Corte cost. n. 217 del 2020). Orbene, se tanto è stato previsto con riferimento alla normativa del piano casa, che si qualifica per il suo carattere straordinario e derogatorio, a maggior ragione deve ritenersi valevole con riferimento a disposizioni regionali, quale quella in questione, che introducono deroghe generalizzate alla pianificazione urbanistica, in assenza di copertura di una norma statale. E’, dunque, violato l'art. 117, terzo comma, della Costituzione, per contrasto con i principi fondamentali statali in materia di governo del territorio stabiliti dall'articolo 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, come attuato mediante il decreto ministeriale n. 1444 del 1968, nonché con l'art. 5, comma 11, secondo periodo, del d.l. n. 70 del 2011. L'articolo 9, comma 70, inoltre, nel prevedere che: a) il cambio della destinazione d'uso dell'immobile sottoposto a intervento di ristrutturazione edilizia o di demo-ricostruzione possa avvenire anche indipendentemente dalle percentuali previste dagli strumenti urbanistici comunali per ogni singola funzione, e quindi sostanzialmente in deroga agli indici e ai parametri urbanistici ed edilizi; e b) i cambi di destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale di cui all'articolo 23-ter del d.p.r. 380/2001 possono avvenire incondizionatamente, confligge anche con la normativa statale in materia di tutela del paesaggio, in quanto sottrae la disciplina ditali interventi alla sede propria del piano paesaggistico. Una deroga alla pianificazione urbanistica si traduce, infatti, in una deroga indiretta alle previsioni di Piano paesistico regionale, adottato dalla Regione Lazio d'intesa con questo Ministero, e approvato con deliberazione del Consiglio Regionale n. 5 del 21 aprile 2021, pubblicato sul B.U.R.L. n. 56 del 10 giugno 2021, Supplemento n. 2. Costituisce, infatti, assunto pacifico quello per cui il legislatore nazionale, nell'esercizio della potestà legislativa esclusiva in materia, ha assegnato al piano paesaggistico una posizione di assoluta preminenza nel contesto della pianificazione territoriale. Gli articoli 143, comma 9, e 145, comma 3, del Codice di settore sanciscono, infatti, l'inderogabilità delle previsioni dello strumento di pianificazione paesaggistica da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico e la loro cogenza rispetto agli strumenti urbanistici, nonché l'immediata prevalenza del piano paesaggistico su ogni altro atto della pianificazione territoriale e urbanistica (cfr. Corte cost. n. 180 del 2008). Si tratta di una scelta di principio la cui validità e importanza è già stata affermata più volte dalla Corte costituzionale, in occasione dell'impugnazione dileggi regionali che intendevano mantenere uno spazio decisionale autonomo agli strumenti di pianificazione dei Comuni e delle Regioni, eludendo la necessaria condivisione delle scelte attraverso uno strumento di pianificazione sovracomunale, definito d'intesa tra lo Stato e la Regione. La Corte ha, infatti, affermato l'esistenza di un vero e proprio obbligo, costituente un principio inderogabile della legislazione statale, di elaborazione congiunta del piano paesaggistico, con riferimento ai beni vincolati (Corte cost. n. 86 del 2019) e ha rimarcato che l'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica "è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull'intero territorio nazionale" (Corte cost., n. 182 del 2006; cfr. anche la sentenza n. 272 del 2009). La deroga al piano paesaggistico comporta la violazione del principio di gerarchia dei piani, di cui all'art. 143, comma 9, e all'art. 145, commi 3 e 4, del Codice, che pone il piano paesaggistico al vertice della pianificazione, sancendone il ruolo di "costituzione del territorio", come tale destinato a prevalere su qualsivoglia piano, programma o progetto nazionale o regionale di sviluppo economico (cfr. ancora l'art. 145, comma 3). Il principio di gerarchia dei piani trova fondamento negli articoli 143, comma 9, e 145, comma 3, del Codice, che prevedono: "A far data dall'adozione del piano paesaggistico non sono consentiti, sugli immobili e nelle aree di cui all'articolo 134, interventi in contrasto con le prescrizioni di tutela previste nel piano stesso. A far data dalla approvazione del piano le relative previsioni e prescrizioni sono immediatamente cogenti e prevalenti sulle previsioni dei piani territoriali ed urbanistici" (art. 143, comma 9) e che "Le previsioni dei piani paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici, stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell 'adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette" (art. 145, comma 3). Il comma 4 del richiamato art. 145 a sua volta stabilisce che "I comuni, le città metropolitane, le province e gli enti gestori delle aree naturali protette conformano o adeguano gli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale alle previsioni dei piani paesaggistici, secondo le procedure previste dalla legge regionale, entro i termini stabiliti dai piani medesimi e comunque non oltre due anni dalla loro approvazione. Ilimiti alla proprietà derivanti da tali previsioni non sono oggetto di indennizzo.". La prevalenza delle norme di tutela paesaggistica e, in particolare, di quelle del piano paesaggistico sulle disposizioni regionali urbanistiche trova costante affermazione nella giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha da tempo affermato l'illegittimità delle norme regionali che prevedano il rilascio di titoli edilizi in deroga alla pianificazione paesaggistica. Si è, infatti, sottolineato che "Il codice dei beni culturali e del paesaggio definisce ( ... ), con efficacia vincolante anche per le regioni, i rapporti tra le prescrizioni del piano paesaggistico e le prescrizioni di carattere urbanistico ed edilizio - sia contenute in un atto di pianificazione, sia espresse in atti autorizzativi puntuali, come il permesso di costruire - secondo un modello di prevalenza delle prime, non alterabile ad opera della legislazione regionale" e che "E importante sottolineare che l'eventuale scelta della regione ( ... ) di perseguire gli obiettivi di tutela paesaggistica attraverso lo strumento dei piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici non modifica i termini del rapporto fra tutela paesaggistica e disciplina urbanistica, come descritti, e, più precisamente, non giustifica alcuna deroga al principio secondo il quale, nella disciplina delle trasformazioni del territorio, la tutela del paesaggio assurge a valore prevalente" (Corte cost.n. 11 del 2016). Anche di recente, la Corte ha ribadito che "la circostanza che la Regione sia intervenuta a dettare una deroga ai limiti per la realizzazione di interventi di ampliamento del patrimonio edilizio esistente, sia pure con riguardo alle pertinenze, in deroga agli strumenti urbanistici, senza seguire l'indicata modalità procedurale collaborativa e senza attendere l'adozione congiunta del piano paesaggistico regionale, delinea una lesione della sfera di competenza statale in materia di «tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali», che si impone al legislatore regionale, sia nelle Regioni a statuto speciale (sentenza n. 189 del 2016) che a quelle a statuto ordinario come limite all'esercizio di competenze primarie e concorrenti" (Corte cost. n. 86 del 2019). Come pure evidenziato, "Quanto detto non vanifica le competenze delle regioni e degli enti locali; «ma è l'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica che è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull'intero territorio nazionale: il paesaggio va, cioè, rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali» (sentenza n. 182 del 2006; la medesima affermazione è presente anche nelle successive sentenze n. 86 del 2019, n. 68 e n. 66 del 2018, n. 64 del 2015 e n. 197 del 2014)" (Corte cost. n. 240 del 2020). La Regione, con l'estensione di norme derogatorie e straordinarie, destinate ad applicarsi anche con riferimento ai beni paesaggistici in difformità alle prescrizioni d'uso stabilite dal Piano, nonché agli indirizzi e alle direttive contenute nel Piano stesso, determina l'effetto di operare surrettiziamente una nuova pianificazione ex lege che non tiene conto, però, dei valori paesaggistici, già concordati con lo Stato. Alla luce di tutto quanto sopra illustrato, emerge, dunque, la violazione dell'articolo 9 e dell'articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, rispetto al quale costituiscono norme interposte gli artt. 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio. §§§ L’art. 9, comma 81, nel modificare l'art. 22 comma 110 della legge regionale n. 1/2020, estende ai dipendenti a tempo indeterminato delle società totalmente controllate dagli enti di area vasta che non possono essere ricollocati ai sensi dell'art. 1, comma 614, della legge n. 190/2014, ancorché in scioglimento o liquidazione al 31 dicembre 2014, le procedure di mobilità di cui all'art. 1, comma 568-bis, della legge n. 147/2013, ai sensi di quanto previsto dall'art. 1, comma 614, della legge n. 190/2014. Non è chiaro come l'estensione ai predetti dipendenti di società in scioglimento o liquidazione al 31 dicembre 2014 si coordini con i piani di razionalizzazione periodica delle partecipazioni pubbliche da adottarsi ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 20 e 25 del D.lgs. n. 175/2016. Ciò tenuto conto che: - l'art. 19 comma 9 del predetto D.lgs. ha stabilito - con norma di carattere transitorio - che "le disposizioni di cui all'articolo 1 commi da 565 a 568 della legge 27 dicembre 2013. n. 147 [cui fa rinvio il citato comma 568-bis] continuano ad applicarsi fino alla data di pubblicazione del decreto di cui all'articolo 25, comma 1". Tale norma prevedeva una speciale procedura transitoria di mobilità in favore dei dipendenti dichiarati eccedenti e non ricollocati delle società a controllo pubblico adottato a seguito della revisione straordinaria di cui all'art. 24 - e comunque non oltre il 31 dicembre 2017; - l’art. 28 comma 1 lettera t) del medesimo D.lgs. ha abrogato i commi da 563 a 568 della legge n. 147/2013. Alla luce di quanto precede, la norma regionale si pone in contrasto con la normativa vigente in materia di ricognizione del personale in servizio finalizzato all'individuazione di eventuali eccedenze, recata dall'art. 25 del D.lgs. 175/2016, e pertanto deve essere impugnata per contrasto con l'art. 117, secondo comma, lett. l), Cost. in materia di ordinamento civile. §§§ Articolo 9, commi 99 e 100: i commi in esame prevedono che la Regione, in coerenza con le previsioni del Piano per l'applicazione e la diffusione della medicina di genere di cui al decreto del Ministro della Salute del 13 giugno 2019, e per garantire parità di trattamento e accesso alle cure sanitarie come pure la qualità e l'appropriatezza delle prestazioni erogate, favorisca la divulgazione di pratiche sanitarie che nella ricerca, nella prevenzione, nella diagnosi, nella cura e nella riabilitazione tengano conto dei diverso impatto dei determinanti di genere sulla salute, con particolare attenzione alle specifiche esigenze delle donne con disabilità. Al comma 100 si prevede che agli oneri relativi alle campagne informative e di sensibilizzazione sulle problematiche di salute e sulle differenze di genere di cui al comma 99 si provvede mediante l'istituzione nel Programma 07 "Ulteriori spese in materia sanitaria" della Missione 13 "Tutela della salute", titolo I "Spese correnti", della voce di spesa denominata: "Spese per l'attività informativa relativa alla medicina di genere", la cui autorizzazione di spesa, pari a euro 30.000, per ciascuna annualità 2023 e 2024, è derivante dalla corrispondente riduzione delle risorse iscritte nel bilancio regionale 2022-2024, a valere sulle medesime annualità, nel fondo speciale di cui al Programma 03 "Altri fondi" della Missione 20 "Fondi e accantonamenti", titolo I. Trattandosi di prestazioni extraLEA, la norma è suscettibile di impugnativa dinanzi alla Corte Costituzionale, in quanto si pone in contrasto con l'articolo 117, terzo comma della Costituzione, in materia di tutela della salute e coordinamento della finanza pubblica, visto e considerato che la Regione Lazio si trova attualmente in Piano di rientro dal deficit sanitario. Si richiamano in proposito le sentenze della Corte costituzionale nn. 104/2013 e 190/2022. Al riguardo, pur condividendo l'obiettivo perseguito non si trascura di considerare che, non essendo il suddetto Piano richiamato all'interno del DPCM 12 gennaio 2017, di fatto, l'intervento in parola si risolve in un livello aggiuntivo di assistenza, che, come già ricordato, la Regione Lazio non può erogare neanche con risorse proprie essendo soggetta alla disciplina dei Piani di rientro dal disavanzo sanitario (cfr. Corte cost., sent. n. 104/2013). Sul punto si rammenta ancora che la Corte costituzionale (sent. n. 104/2013) ha evidenziato, in plurime occasioni, che "l'autonomia legislativa concorrente delle Regioni nel settore della tutela della salute ed in particolare nell'ambito della gestione del servizio sanitario può incontrare limiti alla luce degli obiettivi della finanza pubblica e del contenimento della spesa" specie "in un quadro di esplicita condivisione da parte delle Regioni della assoluta necessità di contenere i disavanzi del settore sanitario". Ne deriva che, laddove la disposizione in esame dispone l'assunzione a carico del bilancio regionale di oneri aggiuntivi per garantire un livello di assistenza supplementare, risulta violare il principio di contenimento della spesa pubblica sanitaria, quale principio di coordinamento della finanza pubblica e, in definitiva, l'art. 117, terzo comma, Cost. e deve essere impugnata ex art. 127 Cost. §§§ L’art. 9, commi 101 e 102, in tema di prevenzione della fibromialgia, promuove la prevenzione della fibromialgia e garantisce un'adeguata tutela sanitaria ai soggetti che ne sono affetti, favorendone, altresì, la conoscenza attraverso l'avvio e la conduzione di studi clinici, aspetti epidemiologici, diagnosi, cura, impatto sociale e lavorativo. Agli oneri derivanti da tale previsione normativa, si fa fronte con le risorse della Missione 13. Sul punto, si specifica che la fibromialgia non è, a normativa vigente, inclusa tra le patologie croniche e invalidanti di cui agli Allegati 8 e 8-bis al DPCM 12 gennaio 2017 per le quali il SSN garantisce una particolare forma di tutela attraverso il riconoscimento del diritto ad effettuare in regime di esenzione dal pagamento del ticket alcune prestazioni di specialistica ambulatoriale finalizzate al monitoraggio della malattia, alla prevenzione delle complicanze e di ulteriori aggravamenti. Ciò premesso, la fibromialgia è stata oggetto di un apposito intervento legislativo all'art. 1, comma 972 della legge n. 234/2021 (legge di bilancio 2022) che ha istituito, nello stato di previsione del Ministero della salute, un Fondo per lo studio, la diagnosi e la cura della fibromialgia con una dotazione di 5 milioni di euro per il 2022. Tale fondo è stato ripartito tra tutte le Regioni, ad esclusione delle Province autonome di Trento e Bolzano, secondo le quote definite dall'art. 2 del decreto del Ministero della salute dell'8 luglio 2022. Nello specifico, sono stati stanziati in favore della Regione Lazio 488.389 € e pertanto il non utilizzare tali risorse per finanziare gli interventi in materia, trattandosi di risorse finalisticamente vincolate all'individuazione di Centri che si occupino della realizzazione di studi clinici, aspetti epidemiologici, diagnosi e cura della fibromialgia comporta che le prestazioni di cui in parola si configurino come extraLEA. Pertanto, la norma è illegittima e suscettibile di impugnativa dinanzi alla Corte Costituzionale, in quanto si pone in contrasto con l'articolo 117, terzo comma della Costituzione in materia di tutela della salute e di coordinamento della finanza pubblica. La norma pertanto deve essere impugnata ex art. 127 della Costituzione. Al riguardo si richiamano anche le sentenze della Corte costituzionale nn. 104/2013 e 190/2022. §§§ L’art. 9, comma 120, nel modificare la legge regionale n. 53/1998, avente ad oggetto l'Organizzazione regionale della difesa del suolo in applicazione della legge regionale n. 183/1989, inserisce l'art. 31-bis, rubricato "Taglio di vegetazione e raccolta di legname fluitato" che prevede, al comma 2, nell'ambito degli interventi di manutenzione dei corsi d'acqua, la possibilità per i soggetti interessati (alla realizzazione di sfalci o all'esporto di erba dagli alvei, dalle sponde o dalle aree golenali demaniali) di operare le attività ivi contemplate, previa presentazione di apposita comunicazione al Comune territorialmente competente, il quale può, nei successivi 30gg, vietarne l'esercizio sulla base del parere acquisito dall'Autorità idraulica competente d'intesa con il "Corpo dei carabinieri forestali'. Premesso che il termine utilizzato per indicare il Comando di vertice dell'Arma dei carabinieri, deputato e specializzato nella tutela ambientale, forestale e agroalimentare non risulta correttamente espresso (la sua denominazione, recata dall'articolo 174-bis dei decreto legislativo n. 66/2010, è la seguente: "Comando unità forestali ambientali e agroalimentari" - CUFA), l'art. in esame attribuisce una nuova competenza ad una Forza di polizia ad ordinamento militare, quale l'Arma dei carabinieri, mediante il citato dipendente Comando di vertice, che solo il legislatore statale può determinare, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. d) ed h) Cost. Non figura, infatti, nelle attribuzioni di cui all'art. 7, comma 2, del D.lgs. n. 177/2016, assunte dall'Arma dei carabinieri in ragione dell'assorbimento del Corpo Forestale dello Stato, alcun potere autorizzatorio, anche in forma concertata, sulla gestione dei bacini idrici, che possa quindi essere utilmente richiamato dal disposto normativo in esame (ad opera del legislatore regionale). Le attribuzioni esercitate dal CUFA, a mente del citato art. 7, comma 2, del decreto legislativo n. 177/2016 sono essenzialmente riconducibili ad attività di controllo, finalizzate all'accertamento di illeciti amministrativi o penali nelle discipline di settore indicate. §§§ Sempre l’art. 9, comma 120, nel modificare la legge regionale n. 53/1998, avente ad oggetto l'Organizzazione regionale della difesa del suolo in applicazione della legge regionale n. 183/1989, inserisce anche l'art. 31-ter (Prelievo di materiale litoide per uso personale). La norma, riguardando la materia del prelievo di materiale litoide per uso personale del demanio idrico, per usi domestici e senza finalità commerciali, prevede testualmente che: “1. L’autorizzazione al prelievo per uso personale di materiale litoide, limi, sabbie, ghiaie e ciottoli del demanio idrico, per usi domestici e senza finalità commerciali, sui corsi d’acqua di qualunque classe, è rilasciata, fatti salvi i diritti dei terzi, dal comune competente per territorio, a favore degli abitanti residenti, per una quantità annuale massima di 30 metri cubi per ciascun nucleo familiare. 2. Il comune trasmette annualmente copia delle autorizzazioni di cui al comma 1 agli enti competenti per classe di corso d’acqua. 3. Il prelievo occasionale per uso personale o didattico di una modesta quantità di ciottoli, comunque non superiore a 10 metri cubi, non è soggetto ad alcuna autorizzazione.”. Si evidenzia preliminarmente che il quadro normativo disegnato dal legislatore regionale risulta per lo meno inusuale in quanto non si comprende il significato di “uso personale di materiale litoide” o per “usi domestici” in considerazione del fatto che, per tali necessità, sarebbe necessario l’utilizzo di mezzi meccanici di escavazione e di trasporto che il singolo cittadino generalmente non possiede. Tra l’altro, per i fabbisogni di materiale litoide esistono cave autorizzate e comprese nel piano regionale per le attività estrattive, approvato con Delibera di Consiglio Regionale n.° 609/2010, di cui alla legge regionale Lazio n. 17 del 2004 recante “Norme per la coltivazione delle cave e torbiere della Regione Lazio”. Tale azione, peraltro, se perpetrata da un numero considerevole di cittadini, comporterebbe un notevole danno ambientale all’assetto geomorfologico dei corsi d’acqua e un mancato apporto solido verso le coste, già sottoposte a forte arretramento proprio per riduzione di apporto solido. Tale previsione regionale è comunque in contrasto con il parametro interposto statale recato dall’articolo 97, comma 1, lettera m), del Regio decreto 25 luglio 1904, n. 523 (Testo unico delle disposizioni di legge intorno alle opere idrauliche delle diverse categorie), in base al quale: “Sono opere ed atti che non si possono eseguire se non con speciale permesso del prefetto e sotto l’osservanza delle condizioni dal medesimo imposte, i seguenti: […] m) l’estrazione di ciottoli, ghiaia, sabbia ed altre materie dal letto dei fiumi, torrenti e canali pubblici, eccettuate quelle località ove, per invalsa consuetudine si suole praticare senza speciale autorizzazione per usi pubblici e privati. Anche per queste località però l'autorità amministrativa limita o proibisce tali estrazioni ogniqualvolta riconosca poterne il regime delle acque e gl’interessi pubblici o privati esserne lesi;”. Gli interventi presi in considerazione dalla disciplina regionale risultano, ancora oggi, sottoposti al regime normativo previsto dal r.d. n. 523 del 1904, in forza del quale, per la tutela e la preservazione dei corsi d’acqua e delle relative pertinenze, vengono imposti una serie di vincoli alle iniziative destinate ad interferire sul buon regime delle acque pubbliche. In questa ottica, il citato testo unico detta una indicazione generale (art. 2) in virtù della quale «[s]petta esclusivamente all’autorità amministrativa […] provvedere […] sulle opere di qualunque natura e in generale sugli usi, atti o fatti, anche consuetudinari, che possono aver relazione col buon regime delle acque pubbliche, con la difesa e conservazione delle sponde, con l’esercizio della navigazione, con quello delle derivazioni legalmente stabilite, e con l’animazione dei molini ed opifici sovra le dette acque esistenti; e così pure sulle condizioni di regolarità dei ripari ed argini od altra opera qualunque fatta entro gli alvei e contro le sponde». Per altro verso, al fine di realizzare tale obiettivo di massima, il citato regio decreto dedica un capo apposito (il Capo VII) alla attività di «[p]olizia delle acque pubbliche», imponendo specifici divieti o doveri di comportamento finalizzati alla prevenzione o eliminazione di situazioni di danno o anche di solo pericolo inerenti al deflusso delle acque. Compiti, questi, di «polizia idraulica» che in esito al decentramento amministrativo risultano tra quelli riconducibili alle funzioni conferite alle Regioni (in uno al trasferimento della gestione inerente al demanio idrico), in ragione di quanto dettato dagli artt. 86 e 89 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), sia pure nel rispetto della legislazione vigente. In particolare, secondo quanto previsto dall’art. 93 del r.d. n. 523 del 1904, l’esecuzione di opere inerenti all’alveo dei corsi d’acqua, senza distinzioni di sorta quanto alle caratteristiche dell’intervento da eseguire e del soggetto, privato o pubblico, che deve realizzarle, presuppone la preventiva verifica della compatibilità idraulica della relativa iniziativa e dunque il rilascio del cosiddetto “nulla osta idraulico” da parte della competente autorità (in origine, il Prefetto territorialmente competente, tenuto a rendere il relativo «permesso»). Fuori da tale previsione di massima, la specifica incidenza idraulica dell’iniziativa da realizzare viene in rilievo, nel citato testo unico, in primo luogo nel tipizzare (art. 96) una serie di «lavori ed atti» che, se realizzati sulle «acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese», sono vietati in ogni caso perché aprioristicamente ritenuti pericolosi rispetto all’obiettivo di tutela perseguito; in secondo luogo, nell’elencare altre «opere ed atti» (artt. 97 e 98) che possono essere realizzate solo se previamente autorizzate alla luce delle indicazioni prescrittive rese dalla competente autorità idraulica e rispetto alle quali, dunque, l’autorizzazione assume anche contenuto conformativo (lo «speciale permesso» e la «speciale autorizzazione», cui letteralmente fanno riferimento le due norme citate da ultimo, in origine di competenza prefettizia o del Ministero dei lavori pubblici, a seconda delle connotazioni dell’intervento). Ciò precisato, è indubbio che le disposizioni desumibili dal testo unico evocato debbano ritenersi riconducibili, attraverso una lettura diacronica del relativo dato normativo, all’attività di difesa del suolo così come definita, oggi, dall’art. 54, lettera u), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale). Testo normativo, quest’ultimo, che non a caso annovera (art. 56, comma 1, lettera i) lo svolgimento dei servizi di «polizia idraulica» tra le attività strumentali ad «assicurare la tutela ed il risanamento del suolo e del sottosuolo, il risanamento idrogeologico del territorio tramite la prevenzione dei fenomeni di dissesto, la messa in sicurezza delle situazioni a rischio e la lotta alla desertificazione» (art. 53, comma 1), in linea di continuità con quanto previsto dagli abrogati artt. 1 e 10 della legge 18 maggio 1989, n. 183 (Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo. La relativa disciplina, secondo la costante giurisprudenza della Corte Costituzionale, rientra, quindi, nella materia della tutela dell’ambiente, di esclusiva competenza statale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. (sentenze n. 77 del 2017, n. 83 del 2016, n. 109 del 2011, n. 341 del 2010 e n. 232 del 2009); con l’ulteriore conseguenza che «le disposizioni legislative statali adottate in tale ambito fungono da limite alla disciplina che le Regioni, anche a statuto speciale, dettano nei settori di loro competenza, essendo ad esse consentito soltanto eventualmente di incrementare i livelli della tutela ambientale, senza però compromettere il punto di equilibrio tra esigenze contrapposte espressamente individuato dalla norma dello Stato» (sentenza n. 300 del 2013). Per quanto esposto la norma esaminata deve essere impugnata ex art. 127 della Costituzione per il contrasto con le citate norme e conseguente violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. L’art. 93 del r.d. n. 523 del 1904 non può, infatti, essere letto disgiuntamente dalle indicazioni generali e di massime offerte dall’art. 2 dello stesso testo normativo, in forza del quale il controllo ascritto all’amministrazione competente a tutela delle acque pubbliche va esteso alle «opere di qualunque natura, e in generale sugli usi, atti o fatti, anche consuetudinari, che possono avere relazione con il buon regime delle acque pubbliche […]». La Corte costituzionale (Sentenza n. 44 del 2019) ha infatti ribadito, oltre quanto in precedenza riportato, il principio, in forza del quale ogni ulteriore iniziativa, comunque in grado di poter influire sul buon regime dei corsi d’acqua, deve ritenersi compresa nell’area coperta dal predetto parametro statale evocato. Inoltre, la predetta previsione regionale è in contrasto anche con le locali e pertinenti norme tecniche di attuazione (N.T.A.) della pianificazione di bacino per l’assetto idrogeologico, disciplinanti l’asportazione di materiale inerte in alveo nonché l’esercizio dell’attività estrattiva “all’interno della zona compresa tra le linee poste in destra e sinistra idraulica a distanza di 10 metri misurati dal piede esterno dell'argine o, in assenza di questo, dal ciglio superiore di sponda, oppure dal confine demaniale, catastalmente definito, qualora questo risulti più esteso rispetto ai limiti sopra detti.” (N.T.A., Piano Stralcio di Assetto Idrogeologico (PAI) dell’Autorità di Bacino del Fiume Tevere). §§§ Con l'art. 9, commi 146 e 147 in tema di Programmi di screening su neoplasie polmonari la Regione, con il condivisibile obiettivo di favorire la ricerca scientifica in materia di prevenzione e cura delle neoplasie polmonari, promuove programmi di screening condotti sulla popolazione a rischio di sviluppo di neoplasie polmonari, ponendo, tuttavia, i relativi oneri, derivanti da una riduzione delle risorse iscritte nel Programma 3 della Missione 20, a carico delle voci di spesa denominata "Spesa per programmi di screening" di parte corrente e in conto capitale istituite nel Programma 7 della Missione 13. In particolare, per quel che concerne gli aspetti connessi alla prevenzione collettiva si rappresenta che i programmi di screening per le neoplasie polmonari non rientrano tra quelli garantiti a carico del SSN dalla lettera F8 dell'Allegato 1 al DPCM 12 gennaio 2017 (cancro alla mammella, cancro del colon retto e del cervico-carcinoma). Pertanto, la disposizione in esame configura una prestazione aggiuntiva di assistenza che la Regione, soggetta alla disciplina dei Piani di Rientro dai disavanzi, non può erogare neanche attraverso risorse proprie. Trattandosi di prestazioni extraLEA, la norma è illegittima ed è suscettibile di impugnativa dinanzi alla Corte Costituzionale, in quanto si pone in contrasto con l'articolo 117, terzo comma della Costituzione in materia di tutela della salute e coordinamento della finanza pubblica. La norma pertanto deve essere impugnata ex art. 127 Cost. |